C’è un sentimento che da
mesi sta penetrando nella società italiana. A più livelli cresce l’idea che,
per il bene dello stesso Paese, l’Italia dovrebbe uscire dall’eurozona. La
moneta unica è odiata, colpevolizzata, offesa. Sia da destra sia da sinistra arrivano
nuove spinte che vorrebbero un ritorno alla lira. «L’euro ci ha impoverito»,
dicono i più. E ancora: «Siamo un Paese forte, non abbiamo bisogno di questa
moneta senza futuro». Parole che non solo sono sbagliate, ma che fanno
riflettere sulla capacità della società civile italiana di comprendere quali
rischi ci siano da un eventuale secessione dall’euro.
I costi di un’uscita
dall’eurozona sono impossibili da calcolare. Fino a ora, gli unici studi che sono stati
effettuati sono sommari e, tranne in pochi casi, non si sbilanciano sulle
cifre. L’unico esempio degno di nota, per ora, rimane quello di UBS dello
scorso settembre, prima quindi della ristrutturazione del debito greco. I tre
economisti Paul Donovan, Stephane Deo e Larry Hatheway calcolarono i costi di
una secessione di un Paese forte e uno debole dalla zona euro. Nel caso fosse la Germania (o l’Olanda o la Finlandia ) a uscire
dall’euro, il primo anno ci sarebbe una perdita netta compresa fra i 6.000 e
gli 8.000 euro procapite. Poi, negli anni successivi, la perdita sarebbe fra i
3.500 e i 4.500 euro procapite per ogni singolo anno, fino a un massimo di sei.
«Il Pil tedesco potrebbe contrarsi del 20, forse 25 per cento», spiegavano i
tre analisti. Svalutazione della nuova valuta, collasso bancario, depressione
del commercio con i Paesi limitrofi e possibili disordini sociali: ecco cosa
potrebbe succedere a Berlino. Maggiori sarebbero invece le perdite per una
nazione debole come la
Grecia. Per il solo primo anno le perdite sarebbero comprese
fra 9.500 e 11.000 euro procapite, mentre per gli anni successivi sarebbero fra
i 3.000 e i 4.000 euro l’anno. Tanto? Non solo. Troppo.
C’è poi l’aspetto più
significativo. Dall’eurozona non si può
(ancora?) uscire. Il Trattato di Lisbona non disciplina questa evenienza.
Infatti, l’articolo 50 di questo trattato contempla solo la secessione
dall’Europa, che non avrebbe senso in alcun caso. Secondo i teorici dell’uscita
dall’euro, infatti, questa soluzione dovrebbe essere utile per la svalutazione
competitiva della nuova moneta. Un aspetto che, sempre secondo le strampalate
idee che stanno prendendo sempre più piede, dovrebbe essere utile a riduzione
di debito e incremento della crescita economica. Già, peccato che, con la nuova
lira, un Paese come l’Italia non sarebbe esente dagli effetti distruttivi
descritti da UBS nel suo paper di quasi un anno fa.
Troppo facile pensare
che il ritorno alla vecchia valuta possa risolvere i problemi dell’Italia. Le riforme (quelle vere, dolorose
nel breve, utili nel lungo) del mercato del lavoro e delle pensioni sarebbero
possibili con la lira? Il Pil crescerebbe con la nuova lira? Il debito
scenderebbe stabilmente e strutturalmente sotto quota 60% del Pil come
richiesto dal Fiscal Compact con la nuova lira? I tanto celebri “speculatori
internazionali” soccomberebbero di fronte alla nuova lira? Il settore
manifatturiero italiano sarebbe più competitivo con la nuova lira? Le banche
italiane sarebbero più solide con la nuova lira? La risposta a tutte queste
domande è tanto scontata, quanto superflua.
La prossima settimana la Banca centrale europea (Bce) renderà forse note le misure
straordinarie che faranno prendere tempo all’eurozona. Acquisto di bond di
Spagna e Italia, nuove operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Long-Term
refinancing operation, o Ltro), taglio dei tassi di rifinanziamento e sui
depositi overnight, più altre possibilità, come quella dell’acquisto di bond
corporate direttamente dalle banche della zona euro: le possibilità sono tante
e tutte nelle corde della Bce.
Fonte: linkiesta.it

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