L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore
generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per
i 20 anni dell’assassinio di Paolo
Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.
Caro Paolo,
oggi siamo qui a commemorarti in forma
privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare
alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Stringe il cuore a vedere talora tra le
prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta
di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di
legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal
presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al
fresco profumo della libertà.
Se fosse possibile verrebbe da chiedere a
tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci
un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da
chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da
loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si
riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.
Voi che a null’altro credete se non alla
religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai
al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché
questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita
perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un
significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.
Un paese nel quale per troppi secoli la
legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli
e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato
credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo
con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del
consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia
avevano costruito carriere e fortune.
Sapevi bene Paolo che questo era il
problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e
nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del
Grappa ripetesti: “Lo
Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo
Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel
lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo
identificare di più in queste istituzioni”.
E a un ragazzo che ti chiedeva se ti
sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo
Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e
alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri
consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai
dedicato tutta la vita a questa missione.
Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano
soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò
la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei
magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di
senso.
Avete compiuto la missione storica di
restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la
prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli
occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo
Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per
costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto,
occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino
degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso
del dovere.
Ti sottovalutano, Paolo, perché
la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il
senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico
dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto
chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di
essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del
dovere, ma per amore, per umanissimo amore.
Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992
mentre commemoravi Giovanni, Francesca,Vito Schifani, Rocco
Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni
dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda
situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere
a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un
atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”.
Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992,
Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando
anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non
fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era
una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che
tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.
Ti caricammo e ti caricasti di un peso
troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno
Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in
ginocchio ed incapace di reagire.
Sentisti che quella era divenuta la tua
ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni
prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è
stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le
polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico
evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare
troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e
che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che
non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.
Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se
riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e
Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua
morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza
senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la
forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e
di Giustizia e di legalità.
E dunque per tanti di noi è stato un
privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria
lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria
per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto
fosse ormai finito.
Ed invece Paolo, non era affatto finita e
non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito
a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni
di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino
ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.
Sotto le macerie dove invece erano
disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato,
trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre
spalle e a nostra insaputa.
Abbiamo portato avanti la vostra
costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal
sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le
piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non
eravamo soli.
E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi
eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima
smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo
ed infine non vi avessero lasciato morire.
Abbiamo portato sul banco degli imputati e
abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri,
parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici
dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle
parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti
altri.
Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un
popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che
affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere
partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo
senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato,
uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia
da tanto tempo.
Ma, caro Paolo, tutto questo nelle
pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di
famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che
non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola
che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.
Si racconta che la mafia è costituita solo
da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si
racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in
un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo
la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993
ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che
questa non è tutta la verità.
E sappiamo che fosti proprio tu il primo a
capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano
forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per
questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che
nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara,
questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva
proteggerti.
Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma
saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo
consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la
tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci
nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.
Pochi minuti dopo l’esplosione in Via
D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno
fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine
avremmo capito quel che tu avevi capito.
Hanno fatto sparire tutti i documenti che
si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani
dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i
magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno
fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti,
cominciano ad avere paura.
Le loro notti si fanno sempre più insonni
e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo
questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno
che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo
Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre
vite e la vostra morte.
E sanno che quel giorno saranno nudi
dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e
saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi
alla Nazione.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/22/lettera-di-scarpinato-a-borsellino-caro-paolo-per-chi-ha-tradito-e-solo-questione/301931/
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/22/lettera-di-scarpinato-a-borsellino-caro-paolo-per-chi-ha-tradito-e-solo-questione/301931/

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