Poco più di mezz’ora.
Tanto è bastato al Senato per approvare l’introduzione nella nostra
Costituzione del semipresidenzialismo. Il progetto del Popolo della libertà che
permetterà agli italiani di eleggere direttamente il prossimo presidente della
Repubblica. Almeno in linea teorica. Nonostante il voto di Palazzo Madama, la
riforma resta un’eventualità. Neppure troppo concreta. Perché in Parlamento
mancano le condizioni tecniche e politiche per procedere alla definitiva
approvazione dell’intero disegno di legge. E con ogni probabilità l’istituzione
del Senato Federale, la riduzione di deputati e senatori, la fine del
bicameralismo perfetto e il semipresidenzialismo non vedranno mai la luce.
Il primo ostacolo alle
riforme costituzionali è legato ai tempi
ristretti. A dettare le regole è l’articolo 138 della Carta. «Le leggi di
revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da
ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di
tre mesi». Considerato che l’introduzione del semipresidenzialismo ridisegna
ben 12 articoli del testo, l’iter è segnato. Il pacchetto di riforme -
licenziato dal Senato entro questa settimana - arriverà a Montecitorio entro
settembre. Anche ipotizzando una rapida quanto improbabile approvazione, si
arriva a fine mese. Il nuovo passaggio a Palazzo Madama sarà fissato a cavallo
tra ottobre e novembre. Poi a fine dicembre il ddl tornerà all’esame dei
deputati. Passate le feste natalizie e superato il vaglio di commissioni e Aula
si arriva a gennaio inoltrato. Peccato che per quell’epoca il presidente della
Repubblica dovrebbe aver già avviato il processo di scioglimento delle Camere.
In vista delle elezioni a inizio primavera.
Per quanto difficile,
quello appena delineato è un percorso
persino troppo ottimistico. Infatti sarà sufficiente una sola modifica durante
il primo passaggio alla Camera e il testo dovrà ripartire dal Senato. Tutto
daccapo.
Ostacoli tecnici e
questioni politiche. A Palazzo Madama
l’intesa tra Pd, Pdl e Terzo polo è saltata da tempo. Il pacchetto di riforme
costituzionali studiato dai partiti che sostengono l’esecutivo Monti è stato
modificato dal nuovo asse tra gli uomini di Angelino Alfano e la Lega Nord. Un revival
della vecchia maggioranza di governo costruito attorno a uno scambio. Il Pdl ha
accettato di approvare il Senato federale, in cambio il Carroccio ha votato
l’introduzione del semipresidenzialismo. E già qui nasce un dubbio. La riforme
costituzionali, proprio per il loro valore, dovrebbero essere approvate dal più
ampio numero di partiti possibile. Sicuramente non da una striminzita
maggioranza politica. Secondo dubbio: Pdl e Lega possono ancora contare su una
buona maggioranza a Palazzo Madama. Ma lo stesso non si può dire di Montecitorio,
dove il centrodestra potrebbe non avere i numeri per portare a casa il
risultato.
L’ultima riflessione
introduce un terzo ostacolo. Il già citato articolo 138 della Carta prevede che le leggi di revisione
della Costituzione siano «sottoposte a referendum popolare quando, entro tre
mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una
Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge
sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza
dei voti validi». Il referendum può essere evitato solo in un caso: se
nell’ultima votazione ciascuna delle due Camere dà il via alla riforma con il
voto positivo di due terzi dei componenti. Impossibile, date le condizioni
politiche attuali. Ecco perché il pacchetto di riforme, una volta sottoposto a
referendum, non entrerebbe comunque in vigore prima del 2018.
Non stupiscono allora le
difficoltà incontrate oggi da Pdl e Lega
per approvare il disegno di legge. Un voto tra le polemiche. Con alcuni senatori
berlusconiani - Giuseppe Saro e Beppe Pisanu («Nella migliore delle ipotesi
quello che avremo sarà una bandiera da sventolare in sede elettorale, posto che
ci sia il vento») - che hanno preferito astenersi. Con l’assenza degli
esponenti di Pd e Idv usciti dall’Aula per protesta e il voto contrario di Udc
e Api.
Se Angelino Alfano parla
di «un fatto storico, una grande chance per
il Paese», il Partito democratico si indigna. «Un diversivo senza costrutto -
denuncia Pierluigi Bersani - Spero solo che in questo gesto irresponsabile,
inutile e del tutto inconcludente, non si facciano deroghe a quello che
dobbiamo fare subito, la riforma elettorale». Ognuno difende la sua scelta.
Resta un dubbio. Negli stessi giorni in cui si stanno approvando le riforme
costituzionali, è all’attenzione del Senato il decreto sulla spending review.
Data la crisi economica e le difficoltà del Paese - e considerate le complicate
prospettive parlamentari del pacchetto Pdl-Lega - non sarebbe stato più onesto
dedicare maggior tempo (peraltro, retribuito dai cittadini-contribuenti) a quel
provvedimento?
Fonte: linkiesta.it

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