La stampa internazionale
ha rilanciato più volte negli ultimi giorni la notizia dell’inaugurazione l’11
agosto scorso ad Affile (a poca distanza da Roma) del monumento dedicato al
maresciallo Rodolfo Graziani (nato l’11 agosto 1882 a Filettino e morto
l’11 gennaio 1955 a
Roma), sepolto nel comune laziale del quale era originario il ramo paterno
della sua famiglia. Dopo una carriera militare costruita quasi interamente
nelle guerre coloniali d’Italia, dove si macchiò di gravissimi crimini al punto
di guadagnarsi il titolo di “macellaio” d’Etiopia, Graziani finì la sua
“carriera” come ministro della Difesa della Repubblica sociale italiana,
rendendosi responsabile della condanna a morte di renitenti alla leva e
partigiani, crimini per i quali venne condannato nel 1948 a 19 anni di carcere
(17 dei quali gli furono poi condonati).
Non stupisce dunque lo sdegno, misto a incredulità, dei pezzi apparsi su
testate quali The New York Times, El
Paìs e BBC, che hanno condannato un’operazione dal
sapore revisionista con l’intento di riabilitare la memoria di uno dei
personaggi più sanguinari del trascorso regime fascista e del colonialismo
italiano. Stupisce e preoccupa invece lo scarso interesse dedicato alla vicenda
dalla stampa nazionale, che ha relegato la notizia a una posizione marginale,
soffermandosi più sul possibile sperpero di fondi pubblici in tempi di crisi
economica per un manufatto che sarebbe costato 160 mila euro, piuttosto che
interrogarsi seriamente sull’ineludibile portata politico-culturale di una simile
iniziativa: un certo ottundimento dunque della società italiana che sembra fare
da contraltare al clamore suscitato sulla scena internazionale e confermare
quel rapporto controverso con il nostro passato coloniale.
Se infatti Graziani venne condannato per i crimini perpetrati contro i
partigiani italiani, fu in colonia che
commise una sequela infinita di atrocità contro patrioti libici ed etiopici in
particolare. In Libia Graziani portò a termine la “pacificazione” della colonia
nel 1931 al prezzo di massacri, torture, fucilazioni e l’impiego di armi
chimiche, oltre alla deportazione di 100 mila civili dalla Cirenaica ai campi
di concentramento costruiti nella regione desertica della Sirte da dove molti
non fecero mai ritorno. Al tempo si parlò di sterminio, poi c’è chi ha
utilizzato il termine genocidio. Trasferitosi nel Corno d’Africa ai tempi della
seconda guerra italo-etiopica che culminò con proclamazione dell’Impero
fascista e la costituzione dell’Africa orientale italiana nel 1936, Graziani
pianificò l’utilizzo estensivo di armi chimiche proibite, come le bombe
all’iprite, sganciate dal cielo contro i patrioti etiopici e, una volta
divenuto secondo viceré d’Etiopia, lasciò che, a seguito del fallito attentato
contro la sua persona il 19 febbraio 1937, i fascisti per tre giorni si
lasciassero andare a una violenza collettiva senza freni: furono colpiti
mortalmente i giovani patrioti dei Leoni neri, l’elite istruita della società
etiopica e il suo clero nel vano tentativo di azzerare la resistenza al dominio
italiano.
Non a caso fu il governo etiopico, dopo la liberazione nel 1941, a inserire il nome di Graziani nella lista
dei dieci criminali di guerra italiani indirizzata alla War Crimes
Commssion delle Nazioni Unite, senza però ottenerne mai l’estradizione
e l’incriminazione. La nuova Italia repubblicana processava così Graziani per i
crimini contro la resistenza italiana, ma poteva evitare di fare i conti con i
crimini commessi in colonia non tanto o non solo dal fascismo, ma dall’Italia
colonialista nel suo complesso.
Questa in estrema sintesi è la persona alla quale la giunta di
centro-destra del comune laziale rende omaggio, presentandola sul proprio sito web come uno dei
«personaggi illustri di Affile», dove Graziani trascorse la prima infanzia e
gli ultimi anni di vita. A leggere la nota biografica online a cura di Giovanni
Sozi che dipinge Graziani come colui che, «interprete di avvenimenti complessi
e di scelte spesso dolorose, seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la
patria attraverso l'inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al
dovere di soldato», non rimane che constatare con grande amarezza come decenni
di ricerca storica sul fascismo e sul colonialismo italiano non abbiano che
scalfito il mito degli “italiani brava gente”. Intorno alla pagina africana
della nostra storia nazionale permangono come cristallizzate memorie rimosse,
spesso latenti e ancora oggi diversificate. In effetti anche chi in questi
giorni si è giustamente levato contro questa operazione istituzionale di
revisionismo storico aveva spesso in mente la guerra partigiana piuttosto che
quelle coloniali.
A una mancata decolonizzazione delle memorie hanno contribuito rimozioni
istituzionali e silenzi autorevoli se
si considera che fino a tutti gli anni Settanta continuarono ad insegnare
nell’Accademia italiana docenti di storia coloniale formatisi sotto il dominio
fascista o i loro allievi. Eppure ancora oggi che le ricerche storiche hanno
ormai indagato senza compiacimenti e compromissioni quel sistema di
sfruttamento, razzismo e violenza che fu il colonialismo italiano,
evidentemente proprio i risultati di quelle ricerche non si sono riversati
nella società italiana.
L’apologia del criminale Graziani è solo l’ennesimo indice di un quadro
più complesso nel quale si
inscrive anche la partecipazione dell’Italia all’intervento militare
internazionale contro il regime di Muammar Gheddafi nel 2011, proprio in quel
Paese dove l’Italia e Graziani commisero alcuni dei loro crimini peggiori e per
di più nel centenario della prima guerra di Libia quella che, dopo aver
impegnato il Regno d’Italia contro l’allora Impero ottomano tra il 1911 e il
1912, continuò contro la resistenza libica fino al 1931, divenendo la più lunga
guerra della nostra storia unitaria. Se siamo tornati senza complessi a
bombardare l’ex colonia, ridotta per “ragioni umanitarie” a un Iraq qualunque,
non ci si può stupire troppo per quel che è accaduto ad Affile e occorre
riflettere attentamente sulla mancanza nella società italiana di una dimensione
postcoloniale della propria storia nella quale con tale aggettivo non si vuole
intendere tanto il periodo temporale successivo alla fine del dominio diretto
in Africa, ma piuttosto la capacità di (ri)elaborare il presente alla luce
proprio di quel passato.
Fonte: linkiesta.it
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